Ieri era lo straniero, oggi l’appestato. L’immigrato, il comunista, lo zingaro, l’ebreo: da millenni la società umana riversa tutta la propria aggressività verso un gruppo sparuto eppure discreto di individui. In questi giorni drammatici, segnati dalla pandemia di COVID-19, si parla molto del “capro espiatorio”, come se fosse un fenomeno nuovo – o meglio, un fenomeno dimenticato che ora ritornato in primo piano. I notiziari ci raccontano di episodi di violenza collettiva contro chi non indossa la mascherina al supermercato, l’opinione pubblica si scaglia contro chi viola la quarantena e va a farsi una corsa all'aperto. So già che questo mio articolo ferirà l’indignazione di molti lettori, ma non posso esimermi dal pronunciare questa verità: siamo tutti potenziali carnefici. Tutti noi esseri umani siamo propensi, per nostra difettosa natura, ad attuare delle persecuzioni contro altri esseri umani.
Perché accade ciò? Non basterebbe un trattato intero per esaurire l’argomento dal punto di vista filosofico, antropologico o psicologico, e come sempre mi limiterò qui a versare qualche goccia di consapevolezza, a smuovere un po’ le acque nella speranza che in ognuno di noi possa meditare sulla questione.
Anzitutto, cos'è il capro espiatorio? Il termine deriva da un’antica usanza ebraica, descritta nell'Antico Testamento come un rituale di purificazione in cui un sacerdote proiettava su un animale (una capra, appunto) tutti i peccati del popolo; carico di questo fardello morale, l’animale veniva mandato a morire nel deserto. Oggi tutto ciò ci sembrerà un po’ sciocco, eppure è proprio la perdita dei rituali che, tra le altre cose, ci ha resi più aridi e biechi dei nostri antenati.
A noi psicologi, si sa, piace rispolverare termini arcaici per descrivere fenomeni psicologici; così, anche in questo caso ci serviamo della metafora del rito ebraico per descrivere un fenomeno più profondo e complesso. Dobbiamo anzitutto partire da un presupposto: noi esseri umani siamo davvero pessimi nell'improvvisazione! È capitato innumerevoli volte che un’epidemia, una crisi economica o un’altra grande catastrofe mettesse in pericolo la nostra esistenza, o comunque la nostra esistenza come la conosciamo. Ma intimamente noi siamo conservatori, vogliamo mantenere le cose come stanno (lo status quo), o tuttalpiù regredire a una condizione precedente (da cui la nostalgica massima “si stava meglio quando si stava peggio”).
Se siamo pessimi improvvisatori, noi umani restiamo molto bravi a proiettare, che in psicologia significa grossomodo “attribuire ad altri situazioni che in realtà riguardano me”. Ciò che fa l’individuo, la società lo fa in maniera amplificata e stereotipata. Se il singolo uomo di fronte ad un problema proietta e regredisce, la società di fronte a una crisi globale (come questa odierna epidemia) fa lo stesso, ma su larga scala. è sotto gli occhi di tutti la crisi strutturale della nostra società: non ci si abbraccia, non si fa visita ai parenti il giorno di Pasqua, il sistema economico è compromesso, la quotidianità come l’abbiamo sempre vissuta è già un lontano ricordo. Non possiamo contenere dentro di noi tutte queste angosce, queste incertezze: la nostra coscienza è schematica, ha bisogno di idee chiare. L’inconscio ci viene allora in aiuto, e ci suggerisce che in realtà la soluzione è tanto semplice quanto balorda: basta dare la colpa a qualcun altro! Se identifico una cosa, una persona o uno specifico gruppo sociale come la causa di tutta la mia angoscia, pur non risolvendo la crisi, posso almeno gongolarmi nella convinzione che eliminando il responsabile tutto si risolverà. Ma a chi dare la colpa? Certamente non posso dare la colpa a chi mi è simile e vicino: sarà invece molto più facile dare la colpa a chi è diverso da me: il suo essere diverso è già di per sé una novità, qualcosa cui non sono abituato, proprio come non sono abituato all'epidemia, alla carestia ecc. Sicuramente lo straniero, il deforme, il diverso nasconde qualcos'altro. Ecco come Hitler dette la colpa della crisi economica agli ebrei! Anche nel medioevo era pratica comune incolpare gli ebrei di gravi misfatti, come la peste. Oggi molti di noi hanno superato l’antisemitismo, ma il mondo è pieno di gente da incolpare: gli immigrati ci rubano il lavoro, l’UE ci ruba i soldi, i cinesi creano il virus in laboratorio.
Non importa quanto poco verosimili siano le accuse: quando siamo malati ci rivolgiamo anche allo stregone o all'omeopata pur di sentirci tranquillizzati, e così anche la massa collettiva si fa andar bene la prima bufala che circola su internet. Lo ripeto: noi esseri umani amiamo la semplicità, e per questo è più facile credere a una causa stupida ma immediata, invece di una verità complessa e spesso scomoda.
Questo meccanismo psicologico, tanto individuale quanto collettivo, è attestato nelle versioni più antiche dei miti di ogni popolo e cultura. Si è riproposto innumerevoli volte nella nostra lunga storia, e prima della psicologia una sola opera aveva cercato di avvisarci di questo pericoloso fenomeno. Parlo del Vangelo: Gesù è “l’agnello di Dio”, il capro che gli uomini peccatori accusano di ogni possibile male, e massacrano bestialmente nella speranza che quest’atto sia liberatorio.
Oggi, mentre scrivo questo articolo, è la Pasqua cristiana. Seppure io sia cresciuto in un ambiente cattolico, non mi considero religioso già da molti anni. Né avevo in mente di parlare della passione di Cristo quando ho iniziato a scrivere questo articolo. Eppure, sono anch'io membro di una società in cui la tradizione cristiana è ancora vivida, e non posso nascondere quanto i Vangeli siano un’opera umanistica, prima ancora che religiosa.
Allora, che speranze abbiamo di salvarci da questo diabolico funzionamento, se nemmeno Dio in terra è riuscito a distoglierci dal nostro istinto di incolpare sempre qualcun altro? Chi mi segue da un po’ lo intuirà già, perché la risposta è sempre la stessa: non possiamo cambiare il nostro modo di essere, ma possiamo provare ad avere un po’ di consapevolezza in più. Tanto basta, spesso, per accorgerci dei nostri errori, e di fermarci in tempo per rimediare.